"È grave essere diversi?"
"È grave sforzarsi di essere uguali: provoca nevrosi, psicosi, paranoie. È grave voler essere uguali, perché questo significa forzare la natura, significa andare contro le leggi di Dio che, in tutti i boschi e le foreste del mondo non ha creato una sola foglia identica a un'altra."
- Paulo Coelho, Veronica decide di Morire -
a cura di Jessica Bianchi
Tempo, 14 Marzo 2018
Articolo originale: https://temponews.it/2018/03/14/la-guarigione-possibile/
Da vicino nessuno è normale. È questa la prima frase che mi accoglie mentre mi accomodo nello studio del dottor Giuseppe Tibaldi, psichiatra, nonché neo direttore dell’Unità di Salute mentale dell’Area Nord dell’Ausl. Ed è proprio dagli anni della riforma di Franco Basaglia che inizia la nostra chiacchierata. “Nello scegliere di dedicarmi alla psichiatria è stato determinante un episodio che accadde a una mia compagna di liceo. Era il 1973 quando lei ebbe il suo primo episodio euforico. L’hanno ricoverata e io sono stato l’unico ad andarla a trovare in Reparto. L’ho vista in un letto, legata, che mi implorava di liberarla dalla contenzione. Quell’immagine mi ha segnato. Ho visto una psichiatria che spero di non rivedere più. Il suo caso lo cito spesso perché ha avuto un’evoluzione positiva. Il mito dell’inguaribilità è infondato scientificamente: è il muro del manicomio che, purtroppo, non è ancora stato abbattuto”. Langarolo doc, Tibaldi avrebbe voluto “fare psicologia a Padova, ma non potendo trasferirmi, mi sono iscritto a medicina a Torino”, dove si è laureato nel 1981. Anni caldi, di rinnovamento. “Da studente ho partecipato al processo che accompagnò la riforma Basaglia del 1978 e negli anni della specializzazione mi sono legato ai movimenti che sostenevano quel cambiamento epocale. Fu per toccare con mano la pratica psichiatrica che decisi di prestare servizio civile dentro all’unico reparto a porte aperte di Torino. Mi si spalancò un mondo”. Laureato con una tesi sull’approccio epidemiologico in psichiatria, quello per la ricerca è un amore che non lo ha mai abbandonato e lo ha spinto a fare corsi ed esperienze in Italia e all’estero. “Il filone della ricerca è stato, ed è tuttora, essenziale nel mio percorso. La psichiatria italiana non è particolarmente sensibile alla valutazione dei risultati conseguiti, tema per me imprescindibile per misurare il valore del nostro operato”. Nell’estate del 1982 il dottor Tibaldi partì con una delegazione guidata da Fredo Olivero per il Nicaragua dopo la rivoluzione sandinista. “Lì feci un tirocinio all’ospedale psichiatrico di Managua. Da quell’esperienza è nato il mio impegno nell’associazione Italia-Nicaragua ed è da allora che è nato il mio amore per la letteratura sudamericana”, sorride Tibaldi. Responsabile per 25 anni del centro di salute mentale di Barriera di Milano, quartiere popolare di Torino, coordinatore scientifico del Centro Studi e Ricerche in Psichiatria di Torino, nonché direttore della collana Storie di guarigione delle edizioni Mimesis e ideatore insieme all’amico, oggi scomparso, Emanuele Lomonaco, di un concorso letterario dedicato proprio alle storie dall’evoluzione positiva, raccontare il dottor Tibaldi è operazione complessa. Uomo appassionato e pieno di interessi, Tibaldi si definisce un “ottimista. Le teorie biologiche dei disturbi mentali ignorano le biografie delle persone: ecco perché dal Duemila ho deciso di raccontare le storie dei miei pazienti. Quelle positive. Di guarigione”. Una parola scomoda in ambito di salute mentale, ma che può essere descritta come “la fase in cui la sofferenza non domina più l’esistenza, per usare una frase ripetuta più volte dagli stessi sopravvissuti. Ricordi il finale di A Beautiful Mind? Quando il trio di persecutori osserva il protagonista dal fondo della sala? Ecco quell’immagine è la possibile rappresentazione della guarigione. Quando il sintomo, pur persistendo, è in sottofondo. Sotto controllo”. Da oltre trent’anni Tibaldi segue gli psicotici gravi, cercando di curarli: “da una dozzina di studi longitudinali, lunghi 20, 30 anni, si evince come la percentuale di guarigione sia mediamente superiore al 50 percento. Ogni volta che mi approccio a un paziente so che ha almeno la metà delle possibilità di cavarsela. Nutrire delle aspettative favorevoli è cruciale e non costa nulla. Molti colleghi mi dicono di essere troppo ottimista, a mio parere sono loro a essere pessimisti. Dire ai malati che lo saranno per tutta la vita è scientificamente infondato”. Occorre darsi tempo. Essere pazienti, ma la speranza c’è e va alimentata, non uccisa. Figlio della scuola di Gaetano Benedetti, secondo cui la psicoterapia costituisce un approccio terapeutico possibile e vincente nella cura della schizofrenia, il dottor Tibaldi è un convinto sostenitore del metodo, messo a punto negli Anni Ottanta in Finlandia, Open Dialogue. “Il Dialogo Aperto è un modello di trattamento psichiatrico centrato sulla famiglia e sulla rete sociale, attraverso il quale il paziente può essere aiutato all’interno del suo personale sistema sociale di supporto. Il trattamento di rete implica una visione in cui il sistema familiare esteso è considerato agente e non oggetto del cambiamento. Questo nuovo approccio in Finlandia sta dando risultati a dir poco sorprendenti per la cura della psicosi: l’84% dei pazienti è tornato attivamente alla propria vita sociale e lavorativa”. Tibaldi, al momento unico trainer italiano di tale metodo, è entusiasta: “non si lavora mai da soli, ma in team, spesso multidisciplinare (basti pensare ai casi di doppia diagnosi, ovvero quando un paziente somma una dipendenza a un disturbo psichiatrico). Durante gli incontri ogni decisione viene condivisa dai presenti. L’idea di fondo è cercare di capire perché la persona sia andata in crisi, non concentrandosi unicamente sullo spegnimento dei sintomi. Il principio di base di Dialogo Aperto è quello della co-costruzione dei significati: il professionista ha un ruolo di facilitatore ma i significati della crisi devono essere condivisi. Un approccio che piace alle famiglie poiché non si sentono più tagliate fuori dal percorso di cura”. Nel Dipartimento di Salute Mentale di Modena, in particolare a Pavullo, è già stata avviata una sperimentazione in tal senso e, Tibaldi non esclude che a breve anche a Carpi, dopo una attenta formazione del personale, il Dialogo Aperto possa diventare una concreta modalità di lavoro. Il capitolo farmaci e malattia mentale è spinoso, ma Tibaldi non si sottrae: “la risposta farmacologica non può essere considerata l’unica possibile. I farmaci sono utili ma non costituiscono, necessariamente, il solo punto di partenza. Gli studi hanno dimostrato come coloro che hanno progressivamente ridotto nel tempo – o sospeso – le terapie abbiano registrato maggiori vantaggi rispetto a chi non lo ha fatto. Io non attacco in alcun modo il ricorso ai farmaci ma sono convinto ci si debba interrogare su vantaggi e svantaggi. Il farmaco favorisce od ostacola la guarigione? Alcune ricerche dicono che un uso prolungato può contribuire alla cronicizzazione della patologia. Altri ricercatori si spingono ancora più in là, affermando che l’uso eccessivo di farmaci costituisce la terza causa di morte, dopo malattie cardio-vascolari e tumori”. Tibaldi è uno di quegli uomini che non si vuole rassegnare al silenzio e ai recinti della malattia mentale: “ascoltare e costruire un dialogo è indispensabile”. Recovery is possible. E ci crede davvero Giuseppe Tibaldi, d’altronde lo ha fatto scrivere anche sul fondo di cinquecento tazzine e qualche maglietta da regalare. “Perché lo stigma – sorride – si vince anche con un pizzico di ironia”.
Jessica Bianchi